Review Summary: Rincorrere i sogni ci ha sempre portato fortuna
Sul Teatro degli orrori s'è detto tanto, forse tutto, ma le conclusioni vanno sempre tratte a bocce ferme. "Dell'impero delle tenebre" fu innegabilmente un terremoto quando arrivò, pochi altri dischi scossero la scena indipendente italiana tanto quanto lui, che ancora oggi vanta un culto dedicato di fedeli che aspetta una reunion come il ritorno del messia. Ebbe anche una vagonata di detrattori, cosa che tuttora si riflette sulla media dei voti su Rate Your Music (alcuni loro dischi hanno dei punteggi che nemmeno i Maneskin), ma non su quella di Sputnik, che ha da sempre un'utenza decisamente meno italofona.
Pur volendo concedere un qualche punticino a chi lo screditava, il tempo è stato clemente con chi ne tesseva le lodi. Il disco si è reso vettore di un disagio generazionale, letto attraverso una lente che non aveva paura di schierarsi politicamente. Del resto, il leader Capovilla non ha mai nascosto la sua affiliazione marxista, né nelle interviste, né nei testi. La title track ne è un esempio lampante: quattro minuti disperati sulle speranze svanite del Novecento, il tentativo fallito di sfuggire alla nuova schiavitù dettata dal capitalismo, gli anni di duro lavoro ("che cosa c'è di male? Fanno tutti così"), che ci privano del nostro tempo, della nostra individualita e ci prosciugano di tutto ciò che potremmo esprimere. "È come quando non c'è più niente da fare se non aspettare che arrivi un altro giorno". E finisce come doveva finire: "comunque sia, abbiamo perso".
Di italiano nell'esecuzione c'è giusto la lingua, dal momento che le influenze sono prepotentemente americane. Il gruppo stesso le cita: The Jesus Lizard, Nomeansno, e tutta quella schiera di gruppi prodotti da Steve Albini. Il contributo italiano più di rilievo risiede forse nella vena cantautoriale dei testi, accostati ad una recitazione nei cui echi risuonano Giorgio Gaber e i Massimo Volume. Capovilla nelle sue invettive accosta la politica ad episodi più personali, tra cui ricordi d'infanzia, rapporti conflittuali con la religione, amori dei tempi che furono, ma anche omaggi ad amici morti, come ne "La canzone di Tom", uno dei brani ricordati con più nostalgia.
Registrato e mixato dal bassista Giulio Ragno Favero, il disco scalcia e stride come meglio non avrebbe potuto. I fraseggi del chitarrista Gionata Mirai saltellano come grilli, senza restare nello stesso posto più del necessario. Lo stile del batterista Francesco Valente è inusuale, spesso sincopato e dinamico, che spazia dal ridotto all'osso al massimalista. Ma poi citatemi una canzone in italiano con un basso più overdrivato di quello di Favero, ce ne sono? Il tappeto sonoro su cui Capovilla sbraita è solido, che è un bene, visto che canta come un cane e non ha nemmeno una bella voce. Non dovrebbe funzionare, eppure funziona.
Cos'è ordunque che ha alimentato gli hater? Ci sarebbero degli studi da fare. Detesti ciò che ti raffigura ma non vuoi che ti raffiguri. Detesti quello che i tuoi gusti possono dire di te. Detesti avere qualcosa in comune con gente da cui ti vorresti discostare. Ma alla fine chi disprezza compra, e così fu. Capovilla sembra sì pieno di sé, ed insopportabile in una certa misura, e forse forse, se mi lasciate parlare abbastanza, esternerò i miei dubbi che Il teatro degli orrori si sia sciolto a causa sua, ma con ciò? Pur con la sua erre moscia, coi suoi sproloqui, col suo fare, è tutto al posto giusto in questo album. Gruppo per comunistelli quindicenni? Magari, ma siamo vecchi ora, proseguiamo.
"Dell'impero delle tenebre" è un faro nella foschia del post-Berlusconismo. È stato partorito da un mondo di merda, ed ora viene ereditato da un mondo ancora peggiore. Servirebbe come il pane nell'italia Meloniana un gruppo intransigente come questi quattro veneziani disadattati, non stupisce che così tanti ne chiedano il ritorno sulle scene. Un momento, un messaggio dalla regia forse? A tutti quelli che stavano aspettando una reunion?
E LEI VENNE!